Il mestiere del Teatro
Maggio 1, 2021In IndisciplinataBy Indisciplinata

Il mestiere del Teatro.

Quel profumo di radici. Odore forte, appassionato, eco dell’albero vivo. Quella zattera sospesa.

Entrare, sedersi. Salpare. E nelle più auspicabili delle possibilità, naufragare. Naufragare, aggrapparsi alla zattera, issati da figure tutte corpo, voce, energia, sintesi dell’essere. E andare. Nella migliore delle possibilità, dove non si sa. Andare verso altri lidi. In balia del proprio mare emotivo o cullat* dalla calma piatta dell’assenza di orizzonte, senza più controllo, senza più confini. Solo qui e ora.

E poi? E poi approdare verso rive che aspettano proprio noi. Una sponda nuova, che ci spaventa, che abbiamo evitato fin ora, dove crescono domande, dubbi, visioni contaminanti. Una terra che ritroviamo, una terra che avevamo dimenticato, dove sono nascoste risposte, valori, ricordi. Un’isola senza nome, che apre inimmaginabili scenari. Nel riso, nella leggerezza. Nel pianto, nella profondità. Nella riflessione. Nella fantasia.

– Sì, ma tu che lavoro fai?

– Racconto. Con tutta me stessa. 

– Ma ci vivi? Ci campi?

– E tu? Tu vivi senza incantesimo?

Io racconto. Posso essere qualsiasi cosa. Il mio corpo, la mia voce, la mia energia sono al servizio di una storia. Al centro di questa storia ci sei tu. È la tua storia. Che ti piaccia o no, è la tua esperienza. Con te ci sono anche io, è anche la mia storia. Una storia che ci attraversa, che ci abita. E, che ci unisca o ci divida, ci consegna al noi.

Tutte e due abbiamo le nostre responsabilità.

La mia è prestare voce, corpo, energia. La mia è allenarmi ad essere presente, viva, creativa. Affinare ogni giorno la pratica del ricevere e del dare. Fare di tutto questo un mestiere. Mestiere la parola. Mestiere il corpo. Mestiere il mio pulsare. Artigiana dell’immaginario. Affinare gli innumerevoli strumenti che permettano di lanciare piccole magie o sorprendenti incantesimi.

La tua è avere fiducia. La tua è essere viandante. La tua è permetterti di naufragare.

Se io sarò capace di attivare i miei strumenti al meglio e tu di essere naufrag*, non troverai salvagenti, ma quella zattera che ci porterà altrove. E nella migliore delle possibilità, io saprò verso quale riva sto remando ma non saprò mai in quale terra tu approderai. Un viaggio profondamente unico per entrambi.

Oggi questo primordiale rito collettivo è agonizzante. Non se la passava tanto bene nemmeno prima, noi che abbiamo scelto di praticarlo, di farne un mestiere, per mille motivazioni, quasi tutte deprorevoli, abbiamo smesso da tempo di essere custodi accurate/i. Noi, che viviamo nella forsennata dipendenza ai ritmi spacciati dal progresso, abbiamo sempre meno capacità di tornare all’ancestrale, al primario, a quell’incantesimo primitivo che è immaginare insieme, nel qui e ora. Abbiamo smesso di cercare, smesso di essere viandanti, evitiamo di naufragare nelle visioni, naufraghiamo piuttosto nelle sostanze, nella tecnologia, nel mercato, nella schiavitù di regimi lavorativi, nel vortice della sopravvivenza.

Il Teatro è ferito da tempo. Ma da un anno a questa parte è moribondo.

Oggi è la festa delle lavoratrici e dei lavoratori. Mai come oggi, questo primo maggio, ci ricorda che lavorare è un diritto. Mai come oggi questo giorno si tinge di lotta e di resistenza.

Mai come oggi posso dire che ogni forma artistica e culturale è possibile grazie ad una moltitudine di mestieri, competenze, talenti, agiti e praticati da centinaia di migliaia di professionist*. Figure creative, artist*, maestranze tecniche, operatrici e operatori culturali.

Non mi soffermo a snocciolare le gravissime responsabilità di una politica cieca e sorda, che in questo anno (come nei decenni precedenti), non ha realmente ascoltato con attenzione tutta la categoria, una politica clientelare, che non conosce nulla della pluralità di differenze e specificità di un settore enorme, un settore fondamentale, atto a nutrire lo spirito critico, a stimolare l’evoluzione intellettuale ed emotiva di un popolo.

Non mi soffermo sulle mie responsabilità e su quelle di tutt* i/le collegh*. Sono tante, tantissime, certamente questo anno così duro ci sta dando una grande, enorme occasione di consapevolezza, di confronto, di ripensamento.

Mi soffermo su di te. Su te che ami naufragare, su te che ami salire su quella zattera. Non lasciare che ti impediscano di salpare.

E su di te, che non ne senti il bisogno, che ti annoia, che non ti interessa. Non lasciare che ti levino la possibilità di scoprire che anche per te c’è un incantesimo travolgente, da qualche parte.

Non lasciare che levino a te e agli altri la possibilità di essere cercatori di creazione collettiva.

E mi soffermo su chi, come me, ha scelto l’arte come percorso di vita (o forse è l’arte che ci ha scelt*).

Se mi lamento per la mancanza di diritti e tutele nel mio settore, spesso, spessissimo, mi sento rispondere: “E però dai, lo sapevi che era difficile questo ambito.”

Se confido le lotte e i soprusi con chi non è del mestiere la risposta più comune è: “Ma si sa che gli/le artist* hanno vita difficile. Però, dai, almeno ti piace no? Ti diverti!

Qualsiasi altr* professionist* che lotta per i propri diritti non riceve queste risposte, ma solidarietà, comprensione. Perché è considerat* “lavoratore” o “lavoratrice“.

Nel nostro campo, o diventi popolare, guadagni bene e non sei mai precari*, mobile, intermittente, oppure la mentalità dilagante è “te la sei cercata, mo pedali, in fondo non hai voglia di lavorare davvero“. L’artista addà suffrì.  Oppure fai arte perché sei un/una fannullon*.

A chi risponde, anche solo ingenuamente così, dico: ti stanno fottendo. Ogni atto creativo, ogni pratica che ami, ogni passione che scegli, meriti che diventi il tuo lavoro. E meriti di essere tutelat* e riconosciut* per questo. Non di essere ricattat*, strumentalizzat*, invidiat* perché fai un mestiere che ami.

Un anno fa scrivevo il mio indisciplinato articolo per questo giorno: primo maggio in bianco per la cultura. Rileggere le mie parole e vedere che dopo 365 giorni tutto il settore è ancora più sanguinante, mi agghiaccia. No, non mollo. Non posso. Le attuali “riaperture dei teatri” sono false, sono fuffa, e sono elitarie. Il 90 % delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo non ripartiranno. Centinaia di luoghi culturali stanno chiudendo, luoghi profondamente connessi con i territori, luoghi che veicolano capillarmente nel nostro paese visioni artistiche dai molteplici e differenti linguaggi, visioni che non sempre arrivano nei grandi circuiti. Luoghi che veicolano pratiche artistiche dedicate alle periferie, ai/alle giovani, alle donne, alle/gli anzian*, ai/alle portat* di handicap, ai/alle pazienti psichiatrici*, ai/alle detenut*.  La stagione è finita, rimane qualche mera possibilità per gli spazi all’aperto. Sussidi? Totalmente insufficienti. Solo i circuiti mainstream riusciranno a fare qualcosina. Se davvero è rischioso, che si resti chiusi. Ma che arrivino reali sostegni, reali tutele e che si avvi una profonda riforma per tutto il settore, lotta per la quale la categoria tutta si sta forsennatamente spendendo da 14 mesi. Se si riapre, che possano lavorare tutt* e chi non può, continui a ricevere sostegno. Con Mujeres Nel Teatro continueremo a lottare sia politicamente, sia per l’affermazione e la valorizzazione della scena femminile.

Intanto il Teatro ci osserva. Un rito così atavico, così viscerale, in qualche modo, sopravvive sempre.

Quello che auguro a tutte e a tutti noi, artist*, maestranze, spettatrici e spettatori, è di lottare per difendere il nostro diritto a nutrirci di arte, il nostro diritto all’indipendenza dell’immaginario, che permette di vedere le maschere che indossiamo, che stimola a guardarci allo specchio, senza orpelli, per ri-conoscere chi siamo a pelle scoperta. Il diritto a tutelare il mestiere di chi permette che tutto questo accada.

Non si può vivere senza, l’umanità non può vivere senza il Teatro. Forse un giorno si potrà vivere senza il cinema, ma senza il Teatro è impossibile. Almeno finché esiste l’uomo, finché esiste lo specchio, il riflesso di noi stessi che respira, vivo come noi. L’uomo ha bisogno dell’uomo, di essere riconosciuto, di vedersi di fronte e farsi delle domande, per cui non penso che il Teatro morirà mai.
(Emma Dante)

 

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