Che me voi rubbà la corona?
Marzo 15, 2020In IndisciplinataBy Indisciplinata

Che me voi rubbà la corona?

Ciao cara indisciplinata, come stai? Come procede il rifugio nella reggia? Qui, nel mio covo, io pratico insonnia, agisco un sonno creativo. Sono le 5 di mattina. Ho fame, tra poco divoro il frigo. Da ore scrivo e cancello, cancello e scrivo. Un bailamme emotivo, un subbuglio mentale. Ne ho passate di burrasche, ne ho prese di batoste, decine le cadute, anche una lunga battaglia tutta per me, non mi sono fatta mancare niente. Ma in guerra, no. In guerra non ero mai stata. In questa dimensione in cui il pericolo personale è anche collettivo.
Perdiamo. Vite. Pezzi di cuore. Pezzi di noi.  Il lutto derubato dell’ultimo saluto. Perdiamo. Soldi. Certezze, status quo, strette di mano, abbracci. Anni di fatiche, di investimenti, di forsennato lavoro. Se non si muore per il virus, si rischia la morte economica, sociale. C’è chi speculerà, chi si arricchirà, chi cascherà in piedi, chi riuscirà ad aggrapparsi ai salvagenti. Poi c’è tutto il resto. Milioni di persone da tempo in difficoltà, ora mangeranno macerie. Resteranno senza casa, ché anche proteggersi dal virus può essere un lusso. In questo giorni emerge la fragilità del sistema sociale mondiale, non solo italiano.
Chi non sa come mangiare e come pagarla una casa, chi non è tutelato dallo stato, chi ha perso o perderà il lavoro, chi è indebitato con le banche, chi non ha la fortuna di avere una copertura economica, una base per non crollare, ma anche chi ha molto da perdere, ha più paura di questo che del virus.
Eppure sono giorni che mi chiedo se il virus è la malattia o la cura. Cosa ci sta dicendo la terra?
Oggi voglio guardare attraverso il microscopio. Voglio scendere nel mondo impercettibile, a tu per tu con il minuscolo, in quel brulicare silente, vitalissimo, creativo.
Corona virus. Invisibili pulviscoli di vita che scippano scettro, potere e regalità alla razza umana. Una corona immeritata la nostra, usurpata agli animali, alle piante, alle stelle. Noi siamo il virus. Noi intossichiamo, noi distruggiamo, noi contagiamo. Potremmo essere fedeli e attenti custodi di questo mondo e invece abbiamo la presunzione di essere re e regine onnipotenti, l’arroganza di dire: Che me voi rubbà la corona? Quando la corona l’abbiamo usurpata noi.
Stiamo vivendo uno straordinario presente. Straordinario, fuori dall’ordinario. Non credo sia un caso che questo aggettivo nei secoli abbia assunto una valenza positiva, portatrice di sorpresa e meraviglia. Nonostante il terremoto provocato, ciò che irrompe prepotentemente a sconvolgere le abitudini è un’enorme occasione di cambiamento. È un portale. È un trampolino verso la trasformazione. Che, in quanto tale, non è mai indolore.
In questi giorni casalinghi, accanto alla rabbia, alla paura, alla preoccupazione, accanto al bombardamento mediatico, al forsennato uso dei social, alle conversazioni che vomitano dati, sintomi, percentuali, consigli, rimedi, accanto a questa guerra, fa discretamente capolino la bellezza.
Un tempo pieno, profondo.
Il tempo del sonno pomeridiano. Il tempo dei libri. Il tempo delle piccole cose, il tempo dell’attesa. Il tempo per parlare con amici che non sentiamo da mesi. Il tempo per giocare assieme ai figli, per studiare con loro. Il tempo per cucinare quella ricetta che non fai mai, un tempo per la famiglia. Il tempo per sistemare casa, per pulire a fondo. Il tempo per ricordarci la potenza e la fragilità degli anziani. Il tempo per aggiustare. Il tempo per non fare nulla, o meglio, il tempo per fare altro. E anche, perché no, il tempo della solitudine.
Tempo che, di solito, non ci possiamo permettere. Tutto veloce, tutto cotto e mangiato, usa e getta. Corri di qua, corri di là. Salta gli ostacoli, tieni tutto sotto controllo. La base di un sistema mondiale fondato sul consumo. Sul consumo dell’essere umano. Siamo incapaci di stare fermi. Di ascoltare il nostro respiro. Eppure, accanto al dolore, al vuoto, alla mancanza che la solitudine è solita rappresentare, c’è anche un’indefinibile bellezza, una sacralità, una profonda verità. Quando la evitiamo, quando la colmiamo frettolosamente, quando la neghiamo, si fa più dura, agisce segretamente, domina le nostre azioni.  Siamo talmente investit* da doveri, desideri e bisogni indotti, che non abbiamo modo di stare da sol*. Se penso a me, sono  iperattiva, logorroica, fremente. Quanta fatica faccio ad accogliere il silenzio? Quanta a godermi il ritmo naturale del mio corpo? Quanta a fermarmi? Ci hanno educat* alla velocità.  Alla produttività, alla voracità, all’accumulo. Al parametro quantitativo, non qualitativo. Nella velocità si realizza di più, si ottiene di più, si spende di più. Apparentemente. Nella velocità il pensiero non mette radici, nella velocità la consapevolezza delle cose, la visione, l’ascolto sono ridotti al minimo. Siamo veloci ma ciech*.
Se andassimo piano, se riscoprissimo quella solitudine attiva, senza stimoli esterni a intrattenerci, guidarci, indirizzarci, non saremo facilmente governabili. Avremmo modo di capire, di scegliere cosa vogliamo nel profondo, di sentire come stiamo, di reagire assecondando i nostri veri bisogni. Abbiamo paura del virus, abbiamo paura di morire, abbiamo paura della povertà, di perdere la libertà, ma siamo già mort*, siamo zombie.
Noi donne conosciamo bene quanto sia parziale la nostra libertà attuale, nonostante le decennali battaglie femministe. Abbiamo ottenuto briciole di indipendenza, bocconi di uguaglianza, in cambio di una razione doppia, tripla, di fatica. Siamo diventate delle wonder woman, tutto fare, multitasking, ci hanno concesso di lavorare in settori gestiti da uomini, ci hanno permesso di accedere a posizioni di responsabilità, di vestirci come ci pare, di essere trasgressive, eccessive e in alcuni rari casi, donne di potere. Ma sono affari nostri se diventiamo madri, se al lavoro fuori casa dobbiamo sommare il lavoro dentro casa, se non abbiamo tempo per giocare con i figli, per gli affetti, per le nostre passioni. Corri, sbrigati, sgambetta, organizza, impara i salti mortali. Nessun adattamento del sistema produttivo, sociale, politico ai tempi di una famiglia, ai tempi di una persona, ai tempi del corpo. E se noi donne siamo maggiormente sfruttate, non che gli uomini stiano messi bene.
In queste ore lente e sospese, in queste città mute, in questa attesa, sento la vita pulsare. In un presente di malattia, di morte, di crisi, sento il principio di un risveglio. La possibilità di resuscitare. L’occasione per deporre le nostre corone di carta e iniziare un lento, deciso stravolgimento del sistema attuale. Un’occasione per tornare umili, per smontare un progresso che progresso non è.  Sarà dura. Le ferite saranno tante.
Non lasciamo che siano inutili. E se è solo utopia la mia, se è solo un sogno, allora chiudo gli occhi e vado finalmente a dormire.

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